I
centri socio-educativi per minori:
spunti
metodologici ed etnopedagogici
un'esperienza
genovese
Il
testo qui presentato è servito, con altro titolo, come traccia per
l'intervento dei centri socio-educativi al
Seminario
"Una metodologia per la Città Educativa" (Palazzo Ducale, 23 aprile
2001)
organizzato
dall'Agenzia educativa territoriale Centro Est 1 "L'Arcipelago"
di Genova.
Il
testo seppur non centrato esclusivamente sull'etnopedagogia ne fa intravedere
alcune delle applicazioni possibili nell'ambito dei servizi socio-educativi
rivolti ai minori.
La costituzione delle Agenzie
educative territoriali a Genova ha implimentato la messa in rete delle
risorse educative professionali presenti sul territorio.
Esiste un livello di rete
interna all'Agenzia che rappresenta molteplici possibilità in relazione
all'efficacia ed opportunità degli interventi -ovvero la discussione
comune delle segnalazioni e dei bisogni del territorio, valutando quale
tipologia d'intervento (Centro Sociale -aperto a bassa soglia-, Centro
Socio-Educativo -intervento specialistico a numero ristretto-, Affido educativo
individuale, Educativa Territoriale) meglio risponda alla singola situazione
e garantendo, in itinere, aggiustamenti e possibilità di continuità
per la persecuzione di obiettivi d'autonomia e consolidamento-, ma esiste
un'altra funzione altrettanto importante dell'Agenzia in relazione alla
rete esterna.
L'Agenzia, come network
professionale, ha infatti il compito di sviluppare anche la rete territoriale
complessiva rappresentando nodo attivo per le altre realtà che incidono
sull'educazione delle bambine e dei bambini. Pensiamo alle società
sportive, alle associazioni ricreative e culturali, alle parrocchie, ai
gruppi informali che vivono le piazze dei nostri quartieri di riferimento.
Realtà che per prossimità
con i vissuti dei bimbi accolti negli interventi d'Agenzia rappresentano
attori importanti per il conseguimento di quelli obiettivi che le strutture,
in modo professionale e consapevole, perseguono per quegli stessi bambini.
In questo la tanto declamata
"apertura al territorio", soprattutto per le storiche diffidenze sociali
intorno ai centri socio-educativi sia da parte del territorio ("luogo-ghetto")
che degli stessi operatori, funziona ed ha senso educativo e sociale se
i soggetti messi in rete riconoscono e agiscono le proprie peculiarità
di storia e intervento.
Per quanto riguarda i CSE
per piccoli il porsi come nodo attivo delle rete vuol dire quindi mettere
a disposizione la propria professionalità rispettando lo specifico
di altri momenti di socializzazione, integrando interventi e stendendo
progetti educativi -sui singoli e su gruppi- che amplino la possibilità
delle opportunità esperibili e non un generico (sicuramente meno
faticoso ma altrettanto inefficace) "aprirsi" a momenti pubblici, cosa
peraltro naturale e normalmente perseguita.
La presenza di strutture
od interventi dell'Agenzia devono assumere quindi una visibilità
precisa, fatta ed informata sul cosa realmente è e fa, ad esempio,
un CSE.
Un CSE è un luogo
di opportunità contingente per il numero ristretto di bimbi che
lo frequentano ma dev'essere percepito come una risorsa per tutto il territorio,
una risorsa con le proprie specificità, ne più ne meno che
il tabacchino, il farmacista o il salumiere sotto l'angolo.
Non tutti comprano francoboli
o salumi o antiinfluenzali ma tutti sanno che in quel luogo c'è
la possibilità di farlo per chi lo desidera o per chi ne ha bisogno.
Fatte salve inoltre alcune
premesse storiche e le indicazioni, peraltro ritengo condivise, sulle specificità
dell'intervento dei CSE come strutture specialistiche, sugli strumenti
di programmazione, verifica e valutazione dellintervento e sui criteri
di valutazione complessiva dell'efficacia centriamo due aspetti del nostro
agire educativo: l'attenzione al bambino e la costruzione del gruppo e
della rete.
L'attenzione al bambino: il percorso individuale
Come lavoriamo a livello
individuale?
Attraverso la stutturazione
di percorsi individuali, li si possono chiamare per convenzione PEI (progetto
educativo individuale), che sostengano il nostro cliente in direzione di
quegli obiettivi che sono prefissati di concerto con famiglia e operatori
e più complessivamnete che gli garantiscano quel luogo d'accoglienza
e ascolto che ponga le basi per lo sviluppo delle proprie potenzialità,
agendo prevenzione dove possibile e colmando disagio dove richiesto.
Dopo la segnalazione gli
educatori iniziano il rapporto con il bambino mettendo in atto procedure
d'osservazione, per le quali si valuta se per lui e per il gruppo, l'inserimento
possa corrispondere a quei bisogni e a quelle richieste che giungono dalla
famiglia e dagli operatori dei servizi.
Questo tempo, quantificabile
in due mesi, prelude la stesura del progetto educativo vero e proprio.
La stesura dei progetti
educativi individuali tiene conto e mette insieme le richieste della committenza
e della famiglia e i bisogni del bambino.
Sovente, e sempre di più
in momenti dedicati e con professionalità specifiche, si supporta
la famiglia nel concedere spazi di crescita al bambino, anche grazie alla
percezione non tout court sanzionatoria della quale talvolta le famiglie
investono altre figure coinvolte nel progetto (assistente sociale, neuropsichiatra,
pedagogista, psicologo,...) .
La stesura del PEI avviene
come "messa in contratto" sugli obiettivi e condivisione con gli
attori interessati centrando sempre sulla percezione che il bambino ha
del suo essere lì, del perchè e del per che cosa.
Gli obiettivi sono essenzialmente
di tre tipi:
obiettivi contingenti (es.
l'apprendimento o talune abilità sociali),
obiettivi di contesto (cogliere
il cse come luogo dedicato a sè e delle opportunità esperite),
obiettivi di qualità
(soddifazione individuale ed autonomia sociale).
Gli obiettivi non sono necessariamente
ascendenti, anzi sono sovente l'equilibrio in costante definizione tra
i tre livelli. L'opportunità dell'uno o del tal altro sono in relazione
alle "urgenze" sentite dal bambino, mediando le pressioni (famgliari e/o
sociali) esterne.
Subentrano gli strumenti
di verifica e valutazione necessari alla calibratura, prima, e alla conclusione,
poi, dell'intervento.
Il provocatorio e discusso
Alexander S. Neill (1971, Summerhill) diceva che per l'educatore le uniche
cure (da intendersi in senso non terapeutico, ovviamente) ammissibili sono
quello che tendono a guarire l'infelicità. Sottolineerei tendono.
Tendono perchè progettate e quindi agite e quindi verificate e valutate.
Verificare un percorso progettato, attraverso i suoi obiettivi intermedi
e valutarlo in relazione a quelli complessivi, permette di ricentrare l'intervento
persona per persona, problematicità per problematicità.
La ricentratura del'intervento
educativo con il bambino consente che questo, pur nel quadro di riferimento
complessivo del modello teorizzato e agito dal cse, sia realmente rispondente
ai bisogni del singolo bambino.
Centrare l'intervento con
e sul bambino, mutuiamo da Rogers (1974, La terapia centrata-sul-cliente),
implica, inoltre, da parte degli operatori:
-l'autenticità
nella relazione,
ovvero l'educatore dev'essere
liberamente e profondamente se stesso, non assumendo atteggiamenti di circostanza,
comunicando anche le proprie difficoltà
-laconsiderazione
positiva incondizionata,
questo concetto, elaborato
da Standal (1954), significa che non vengano poste condizioni del tipo
"mi piaci solo quando sei così e così...", implica l'accettazione
di tutti i sentimenti espressi dal cliente... tanto di quelli negativi,
"cattivi"...quanto di quelli "buoni", positivi... implica l'accettazione
non solo degli aspetti coerenti della personalità del cliente, ma
anche dei suoi aspetti incoerenti.
-l'empatia;
ovvero sentire il mondo
personale del cliente "come se" fosse nostro, senza però mai perdere
questa qualità del "come se" fosse.
tutto questo dev'essere
percepito dal bambino.
E "guarire" l'infelicità,
tornando a Neill, vuol dire costruire felicità.
Ma perchè costruire
felicità non sia uno slogan e la routine non rubi senso all'agire
educativo bisogna che la felicità la si costruica attraverso opportunità
esperibili.
In un vecchio documento sulla
storia dei cse (Pusceddu 1994, Per una storia dei cse), che mi sono andato
a rileggere per stendere queste pagine, si racconta di come gli allora
Centri diurni nascessero offrendo spazi di gioco e creatività.
Poi sono venute, ed è
sicuramente opportuno sbrigarle, le faccende scolastiche (non voglio entrare
nel merito del senso educativo sicuramente presente anche in quest'aspetto,
si veda nel documento la parte sulla messa in rete con la scuola).
Mi sembra però che
il pensare -e quindi agire- il fare del CSE, che è poi l'intervento
sul disagio dei bambini, come gioco e creatività dia esattamente
il senso del nostro specifico.
Esperienze di gioco e creatività
fatte fianco a fianco con altri bambini e con gli adulti permettono la
messa in gioco delle emozioni, del poterle esprimere e poi magari gestirle,
per saper godere di quelle soddisfacenti e piangere di quelle insoddisfacenti,
accompagnati a "pesarle".
Gli strumenti da privilegiare,
quindi, sono: cultura, estetica e gioco; dal quale discendono la comprensione
del senso di libertà, motivazione, rispetto dell'altro, senza che
rimangano precetti morali caduti da adulti magari sì positivi ma
distanti.
Ogni equipe si struttura
gli utensili pratici per far "cose belle" in base alle competenze e passioni
degli educatori (burattini, passeggiate, mare, motricità e quant'altro);
i modelli teorici di riferimeto capaci di farne strumenti pedagogici dotati
di respiro e senso per il gruppo (educatori+bimbi) devono anch'essi
essere esplicitati e condivisi da ciascheduna equipe.
Fare della cultura, dell'estetica
e del gioco opportunità esperibili è quindi pensare il centro
come il luogo di quelle opportunità.
Facendo sì che il
centro socio-educativo s'appropri di utensili e strumenti che offrano,
al singolo, attraverso le proposte di "divertente, bello e inconsueto",
aiuto a strutturare dinamiche relazionali ed affettive, a esplorare e costruire
un equilibrio personale dinamico, ad attivare percorsi di crescita, ad
interagire con i propi bisogni, istanze e paure. Ovvero offrendo agio,
altro al disagio.
Accogliendone le ansie,
le paure, il senso di inadeguatezza o di colpa; vissuti che sono il portato
dei bimbi a disagio e che solo se accolti possono consentire l'instaurarsi
di relazione significativa e quindi educativa.
Lasciando modo che si diano,
anche i vissuti di disagio, come comunicazione simbolica con l'adulto.
La dimensione simbolica,
dell'agito e comunicato, del bambino rappresenta quindi il medium relazionale
privilegiato dall'educatore che deve decodificare e interpretare correttamente
i messaggi che il bimbo invia. Il difficile equilibrio interpretativo da
darsi al gioco rimanda ancora a Winnicott (1979, Gioco e realtà),
che citiamo nella parte introduttiva del documento per comprendere dove
e come s'instaura disagio, o al gruppo che stretto intorno a Bateson ha
prodotto Questo è un gioco (1956).
La capacità di "stare
con" decodificando deve informare l'azione dell'educatore non offrendo
necessariemente la "risposta giusta", ma dando significato alla comunicazione
stessa, fatta sovente più d'agiti che di parole.
Bruno Bettelheim (1982,
Il mondo incantato) diceva a questo proposito
la comprensione ed il riconoscimento dell'adulto funzionano come specchio in cui il bambino riconosce e costruisce la propria immagine, modula le proprie relazioni con il mondo circostante e con le persone che gli stanno attorno: definisce insomma la sua identità individuale e sociale.
Nel riporto di un'esperienza
di attività espressivo-corporee e ludiche in uno dei nostri cse
si definiva il setting di questi momenti d'espresione e gioco come
"spazio magico".
...quando l'adulto riesce a mettersi in relazione con il bambino all'interno di una struttura di gioco, utilizzando il suo canale comunicativo, costruisce uno "spazio magico" che permette l'espressione di emozioni, di paure e di conflitti e in cui è possibile fare emergere fantasmi senza paura che da uqesti si possa venire risucchiati o distrutti. Questo spazio magico non è uno spazio di analisi del reale, è uno spazio di esplorazione del possibile, di ciò che è noto e di ciò che sembra ignoto, dove è possibile anche l'incontro con l'imprevisto. Uno spazio in cui il linguaggio del corpo, ed il linguaggio del gioco, possono divenire linguaggi simbolici attraverso i quali il bambino sia libero di poter esprimere desideri, timori, contraddizioni, collera, conflitti: uno spazio non solo di "libera espresione", ma anche un luogo entro il quale scoprire e sperimentare diffrenti modalità ed opportunità, alle volte difficilmnete utilizzazbili nel quotidiano.
Ai bambini viene offerto, attraverso questo "spazio magico", un luogo di "costruzione del Sè" individuale e sociale, all'interno del quale ogni singolo può misurarsi e crescere, creando momenti ora piacevoli, ora liberatori e "sproblematizzando" le situazioni, evolvendo positivamente attraverso il confronto con difficoltà simboliche ma reali. Il bambino è libero di muoversi in questo spazio, di muoversi al suo interno: è lui steso con le sue scelte, le sue scoperte, le sue conquiste a definire, passo dopo passo, le modalità e le strategie del suo procedere. (Risso 1999, Analisi di una conduzione di gruppo)
Per quel mi riguarda
ritengo, in tempi di migrazioni, che l'approccio d'etnopedagogiadegli
allievi brasiliani di Freinet, o la tensione d'accoglienza dei modelli
dell'altro che informano l'etnopsicanalisi
di Tobie Nathan possano rappresentare due interessanti terreni di confronto
per il fare educativo ai tempi della globalizzazione.
L'approccio d'etnopedagogiae
i ricaduti educativi della riflessione etnopsicanalitica di Nathan guardano
ai clienti, e alla loro rete, come portatori di una cultura che sola può
produrre cambiamento e crescita per sè.
La strutturazione identitaria
dell'individuo in crescita si confronta con quelli che nelle scienze demo-etno-antropologiche
si definiscono idio-etnemi e socio-etnemi (Bernardi 1993, Uomo cultura
società)
Gli idio-etnemi sono gli
aspetti teorici della cultura -interpretazioni intelletive, valori culturali-
, che vengono poi coordinati in sistemi di pensiero e assunti a base della
personalità e del comportamento.
I socio-etnemi rappresentano
gli aspetti pratici della cultura: istituzioni sociali, espressioni artistiche,
attuazioni materiali.
La più parte dell'utenza-clientela
dei CSE per piccoli è rappresentata da bimbi con vissuti familiari
di migrazione (sia essa quella storica e interna, Sud-Nord Italia, o quella
più recente ed esterna, Sud-Nord del mondo).
Il fornire luoghi di crescita
e d'ascolto deve tener quindi conto di che porati, anche culturali oltreché
personali, informano la percezione sul crescere e sull'educare dei bambini
stessi e delle loro famiglie.
Diciamo spesso che si debba
offrire modelli alternativi, e quindi positivi. Questo però rischia
di sottendere giudizio e porre io positivo versus tu negativo.
L'ottica del versus,
opposto, viene da Nathan -pur se in un modello clinico- non negata ma semplicemente
destrutturata grazie all'accoglienza dell'altro -anche con i suoi portati
socialmente e culturalmente percepiti negativi- rimanendo alter sed
cum, altro ma con. (Nathan 1993, Principi d'etnopsicanalisi)
Questa posizione personale
dell'educatore, oltre ad andare in quella direzione empatica più
generale descritta da Rogers, di fronte al bambino e alla sua percezione
permette di accoglierne le istanze complessive e porre quei momenti educativi
di cultura, gioco ed estetica come "la proposta di me e di ciò che
sono in relazione a ciò che sei e alle proposte, ed obiezioni, che
hai da farmi".
Vello e i suoi colleghi
brasiliani utilizzano questo approccio anche alla didattica, luogo dell'educare
sicuramennte meno simbolico e quindi più difficilmente gestibile
con parametri "di messa di fronte dei nostri portati culturali".
Nathan (1998, Quale avvenire
per la psicoterapia?) in un pamphlet, dai toni ora disincantati ora polemici,
introduce concetti che seppur pensati per un ambito clinico hanno forte
valenza anche per il fare educativo. Alcuni come la quantificabilità
dell'influenza dell'educatore, nel nostro caso, sul paziente e quindi sugli
"aspetti magici della relazione" sono già sondati e considerati
anche con letture sociologiche ma altri, e pensiamo alle sue conclusioni
tecniche, rappresentano una chiave di lettura che permette all'educatore
di far passare dall'implicito all'esplicito alcune prassi che testa ogni
giorno nella relazione. Sostenendole ora con un'analisi teorica.
Per Nathan un intervento
efficace, pensato nell'ottica del dare valore alla cultura e alle percezioni
dell'altro,
permette al cliente di perdere la sua posizione di oggetto, di essere strano e molle che è necessario attraversare fino a percepire gli elementi che ci interessano in lui. (...) Egli diviene, da questo momento, un collaboratore, indispensabile alter ego di una ricerca comune. (...) A qualunque stadio della presa in carico nel quale noi lo incontriamo, un paziente è già stato pensato e costruito dai dispositivi (per noi culturali e educativi) da lui attraversati fin dalla sua nascita. (...) non è più questione di trattare una sedicente parte segreta della persona ma di invitare, invece, la persona stessa a esplorare un dispositivo pubblico immaginato e istituito dal gruppo al quale appartiene. (...) Nathan poi conclude La prospettiva che propongo permette ai meccanismi di solidarietà di imporsi come nella vita quotidiana e non di essere imposti dal di fuori per motivi di ordine morale. (Nathan 1998)La costruzione del gruppo e la rete
Se nella parte precedente abbiamo posto attenzione alla relazione individuale tocchiamo ora brevemente alcuni temi che costituiscono, a livello gruppale e territoriale, anch'essi il lavoro del CSE.
-
la necessaria costruzione di un luogo identitario
i cse accolgono un numero
limitato di bambini che pur condividendo un ambito territoriale -sempre
più vasto- non necessariamente sono in relazione spontanea pregressa
(ecologica) tra loro.
Il CSE dev'essere, come
detto, un luogo delle opportunità esperibili e il luogo dove tutti
(educatori e bimbi) possono permettersi spontaneità. Il rischio
è che vista la previa non conoscenza il centro rimanga un neutro
territorile, per evitarlo oltre ad agire tutte le nostre specificità
pedagogiche, dobbiamo pensare e agire il CSE come uno dei luoghi di sviluppo
di comunità.
Tenendo insieme tutti quegli
aspetti, sostegno alle famiglie e collaborazioni con associazioni ad esempio,
che sostengano la crescita identitaria del singolo in relazione -e rispetto-
della matrice identitaria territoriale e sociale, a maggior ragione viste
le difficoltà ed opportunità legate ai temi migratori prima
affrontati,
-
la costituzione del gruppo di bambini
per permettere una resa
educativa del centro e rispondere all'istanza di costruzione di un luogo
identitario territoriale e sociale è necessario che la costituzione
del gruppo di bambini segua criteri di: eterogeneità per problematicità
(ad es. non solo bimbi con ritardo o svantaggio in relazione alle abilità
cognitive)
e omogeneità per
possibilità educative, facendo del gruppo da somma di "disgrazie"
a prodotto di diversità arricchenti
-
la territorialità dei singoli
Il costruire percorsi educativi
che vadano in direzione dell'autonomia personale e sociale passa attraverso
i due punti su esposti e permette di dare visibilità alla territorialità
del singolo, garantendogli lo sviluppo della propria rete amicale e sociale,
così che il CSE non sia il luogo allontanantete dalle dinamiche
(scuola, giardinetti,...) ma garante del poter incontarre quei luoghi e
quelle persone con e come momenti dedicati alla strutturazione individuale.
In relazione agli obiettivi di struttura del CSE questo deve darsi come referente educativo per il territorio garantendo a livello di rete, di enti ed operatori percorsi di continuità in realzione alle altre agenzie educative presenti: centri aperti, scuola, associazioni,...
Il lavoro di rete è -in senso teorico e complessivo- un tema talmente condiviso che pare inopportuno qui toccarlo.
Rispetto alla rete profesionale
però ci pare interessante iniziare a riflettere sulla possibilità
di rapporto tra servizi (CS, CSE, affidi, ET) non solo nella programmazione
di momenti comuni ma anche di poter pensare equipe allargate che rispondano
ai bisogni di un dato territorio scanbiandosi informazioni e competenze,
garantendo così ulteriore qualità.